Tesi di Laurea – (Parte I)

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Intervista di Flavio D’Ambra a Mauro Storti.

1 – Biografia 2 – Il Metodo 3 – La Produzione 4 – I Programmi 
5 – La Didattica oggi 6 – Le “Ecloghe” 7 – Liuteria 8 – Il Futuro 
  1. BIOGRAFIA. 

Salve maestro, grazie per aver accettato di fare quest’intervista. Comincerei col chiederle qualche notizia più dettagliata riguardo alla sua biografia e del suo incontro con la musica.

Sono Modenese di origine. Da piccolo, quando mio padre era in guerra, una zia suora si adoperò per farmi entrare in collegio in modo da alleviare le difficoltà economiche della mia famiglia (è una storia un po’ simile a quella di Sor, inviato al monastero di Monserrat). Fu là che  imparai a leggere la musica cantando con la mia voce bianca da contralto musiche di Perosi, Haendel e Palestrina. Quando, qualche anno dopo, entrò in casa mia una chitarra come regalo per il mio fratello minore (il maggiore suonava già magnificamente la fisarmonica), cominciai a suonare i primi accordi per accompagnare arpeggiando le belle canzoni napoletane di Roberto Murolo.

Un giorno mi accadde però di ascoltare un pezzo di chitarra classica suonato da una chitarrista, forse Luise Walker o Ida Presti e ne rimasi talmente affascinato che mi recai nel miglior negozio di musica di Bari città (dove mio padre era stato trasferito per lavoro) per procurarmi un metodo per chitarra classica. Mi fu ovviamente consigliato il Carulli e, sapendo già leggere  la musica, mi avventai letteralmente su quei pezzi che trovavo deliziosi. Mi resi presto conto però che mancavano più precise indicazioni sulla diteggiatura della mano destra e così, tornato nel negozio e non avendo trovato di meglio, ordinai dal catalogo Ricordi il Gran Metodo para guitarra di Aguado-Sinopoli, nella convinzione che il rilevante prezzo 3000 lire (mio padre ne guadagnava circa 30.000 al mese) fosse un indice sicuro di qualità.

Quando lo ebbi tra le mani scoprii con disappunto che era scritto in spagnolo e dovetti procurarmi un vocabolario per tradurlo. Anche in quel metodo non c’era praticamente nulla di tecnica ma conteneva alcune buone immagini che davano l’indicazione di massima della posizione, a parte una inclinazione troppo accentuata del polso sinistro che alla sera mi causava seri dolori, anche perché fin da subito veniva proposta la pratica del barrè! Malgrado ciò mi ci applicai assiduamente e in totale solitudine per oltre 4 anni. La prima occasione di assistere ad un concerto di chitarra mi si presentò soltanto sei anni più tardi nel ridotto del teatro Petruzzelli dove ascoltai uno dei primi concerti italiani di Alirio Diaz. Sbarcato a Milano dove avevo trovato lavoro come perito industriale, conobbi Miguel Ablóniz  presso il quale andai a lezione per qualche mese senza tuttavia ricavare alcun apprezzabile miglioramento.

Chi sono stati i suoi maestri? Come si è formato?

Al termine dei pochi mesi passati con Ablóniz, mi recai nel 1964 all’Accademia Chigiana di Siena per frequentare il corso di Alirio Diaz e nel 1965 ebbi l’onore di essere ammesso al corso tenuto da Segovia a Santiago de Compostela. Nel frattempo, avendo considerato l’inutilità dei metodi studiati praticamente da solo e sentendomi assillato da problemi ancora insoluti, cominciai ad approfondire le mie ricerche personali dalle quali scaturì innanzitutto Il Dominio delle corde, un testo realizzato in sette anni e talmente innovativo che, rifiutato dell’editore Bèrben, decisi di pubblicare a mie spese nel 1971. Si è soliti ritenere che l’arte sia un fenomeno immateriale che cali dal cielo per grazia divina, quando invece  non potrebbe esistere senza una consistenza “bassamente” materiale. Sono certo che soltanto la mia formazione come perito meccanico mi abbia permesso di sviluppare teorie e competenze utili per realizzare gli esercizi,  gli schemi e i disegni proposti nei miei testi. Oltre a ciò ho ovviamente condotto adeguati studi di Teoria, Armonia, Storia ed Estetica musicale.

Cosa ricorda dell’incontro con i due grandi maestri?

Di Alirio Diaz ho un ricordo simpatico: durante le ferie estive del 1963 che stavo trascorrendo in giro per l’Italia in compagnia di un amico a bordo di una Fiat 500, mi trovai a passare per Siena e pensai di piazzarmi alle tre del pomeriggio davanti al portone dell’Accademia Chigiana con la speranza di incontrare il Maestro. Quando lo vidi arrivare gli chiesi di poter assistere ad una sua lezione. Egli acconsentì mettendomi amichevolmente un braccio sulla spalla per farmi passare senza problemi  davanti alle guardie (dentro al palazzo c’erano a quel tempo oggetti preziosi che oggi non si vedono più). Ascoltai la lezione di diversi studenti, fra i quali Linda Calsolaro e Gianluigi Gelmetti, e dopo un po’ mi chiese di suonargli qualcosa.

Eseguita la Suite in Re minore di De Visée nella trascrizione di Pujol, mi disse: “bene, bene, sei molto musicale, però dovresti fare dei pezzi più difficili!”. L’anno successivo frequentai il corso come allievo effettivo. La cosa bella di Alirio era che a quell’epoca egli era in piena attività concertistica e aveva un repertorio vastissimo, per cui ebbi modo di ascoltare dalle sue mani per la prima volta la Ciaccona di J.S. Bach (dalla partita n.2 in Re min BWV 1004 per violino), i pezzi spagnoli di Sainz De La Maza e quelli venezuelani di Antonio Lauro e Vicente Emilio Sojo. Una sera ci eravamo organizzati per andare a sentire un suo  concerto a Firenze dove terminò con sei o sette bis; uno dei colleghi aveva registrato il concerto e passammo tutta la notte sul Ponte Vecchio a riascoltarlo in attesa del primo treno del mattino.

Nel 1962 potei assistere, seduto in seconda fila, ad un concerto Segovia al Teatro Nuovo (Milano Piazza San Babila annesso al Palazzo del Toro di Emilio Lancia) e osservandolo attentamente  mi sembrò di capire quale fosse l’origine dei problemi tecnici che lamentavo alla mano destra: in pratica lasciavo cedere passivamente le falangette, mentre il Maestro  faceva al contrario rimbalzare in maniera evidente la mano sulle corde dopo ogni tocco appoggiato. In effetti, il cedimento passivo delle falangette crea dei punti d’appoggio e di riferimento che oltre ad essere  inaffidabili, mantengono il braccio perennemente in tensione. Dopo avere assistito a quel concerto ripresi a suonare ricominciando lentamente dalle scale ma tenendo le falangi ben tese e rimbalzando.

Per un paio di anni lavorai su un nuovo repertorio: Tarantella e Sonata Omaggio a Boccherini di Castelnuovo-Tedesco, Fandanguillo di Turina e Preludio e Fuga BWV 998 di Bach nella trascrizione di Segovia (allora non si era a conoscenza dell’Allegro). Quando fui ammesso dopo un esame al corso di Santiago de Compostela tra gli allievi effettivi, ero un pivello che proveniva da quella lunga esperienza di assoluto autodidatta. Ricordo una giovane compagna di corso che mi diceva: “tu suoni bene: il maestro non ti dice mai niente!”. In effetti Segovia non diceva quasi niente a nessuno, non suonava mai un pezzo dall’inizio alla fine: guardava tutt’al più se la diteggiatura era la sua. In quindici giorni non eseguì che un solo pezzo da cima a fondo.

Quindi fu un incontro deludente?

No! Lui era un personaggio “mitico” e il solo fatto di averlo lì a pochi metri di distanza e potergli chiedere qualche “segreto”, ne valeva la pena, anche se era difficile ricavarne un’utilità immediata. Molti di noi lamentavano difficoltà nell’esecuzione delle scale, notoriamente punto debole dei chitarristi classici rispetto ai flamenchisti e un giorno incaricammo Oscar Ghiglia che conosceva meglio il maestro, di andare a chiedergli qualche consiglio in merito.

In realtà non ci rivelò alcun segreto: mi sarebbe toccato trovare la soluzione da solo ma dopo parecchi anni di studio. L’incontro fu comunque emozionante: la possibilità di vederlo dopo averlo sentito per anni sui dischi fu davvero commovente. In Italia lo vidi in concerto una sola altra volta dieci anni dopo, alla Scala. In seguito ho continuato a lavorare da solo cercando di capire le cose per poi sperimentarle fino ad avere la prova che quello che di volta in volta intuivo funzionava, e solo dopo metterle su carta per spiegarle e trasmetterle agli studenti.

Ricordo che lei una volta mi disse di aver sostenuto degli esami in conservatorio. Ma lei studiava un altro strumento?

Questa merita di essere raccontata! Ho studiato per due anni solfeggio con il maestro Francesco Tissoni fino ad ottenere la licenza al Conservatorio di Milano ma purtroppo non era possibile andare oltre per ottenere le altre licenze complementari di Armonia e Storia della musica, in quanto bisognava avere superato l’esame di quinto anno di uno strumento che non poteva essere la chitarra in quanto ancora Corso Straordinario.

Mi rivolsi al vicedirettore del Conservatorio, Michelangelo Abbado (padre del noto direttore d’orchestra Claudio recentemente scomparso) che mi negò decisamente ogni possibilità. Su consiglio del mio insegnante di armonia, ancora il maestro Francesco Tissoni, mi iscrissi all’esame di Compimento inferiore della classe di clarinetto, ma con una scusa non mi presentai all’esame che fu rimandato a settembre. In tal modo mi fu concesso di sostenere in anticipo l’esame di armonia.

Quando mi presentai all’esame portando con me la chitarra (dietro consiglio del mio insegnante nel caso fosse stato possibile usarla al posto del pianoforte per eseguire le modulazioni), uno dei commissari guardandola con un’ombra di sospetto mi chiese: “Che cos’è?” “Una chitarra”, risposi. “La lasci fuori!”, ribatté, come si fa con i cani. La lasciai fuori dall’aula con la paura di non ritrovarla più. Feci l’esame e andai via! A settembre il segretario del Conservatorio non smetteva di chiamare per ricordarmi di sostenere l’esame di clarinetto, finché dovetti dirgli la verità. Intanto, però, l’esame di armonia era ormai stato messo a verbale!

L’anno successivo si ripresentò lo stesso problema per l’esame di storia della musica che avevo preparato con il maestro Riccardo Allorto. Ancora una volta mi venne negata, per le medesime ragioni, la possibilità di sostenere l’esame. Ritornandomene mestamente sui miei passi mi imbattei nel custode del Conservatorio che, avendomi per combinazione sentito suonare solo per qualche giorno prima nella Sala Puccini e notando la mia aria affranta, mi domandò cosa fosse successo. Udite le mie spiegazioni, mi disse: “Se Lei ha fatto la domanda deve essere  nell’elenco; provi a mettersi in fila e se la chiamano entri senza esitare!”. E così andò: mi chiamarono, entrai e sostenni l’esame! Il povero segretario non mancò di tampinarmi a lungo: “Lei deve sostenere l’esame di clarinetto!”. Insomma, ho fatto due esami senza averne diritto, ma sicuramente solo per sete di cultura!