Un tema oggetto dei più accesi dibattiti fra i chitarristi è quello della trascrizione che, a partire dai Maestri dell’Ottocento attratti dal dilagante repertorio operistico, è assurta nel Novecento ad un grado di rilevante importanza grazie soprattutto al corposo e magistrale lavoro di Francisco Tárrega.
Tale tema, che non ha mancato di interessare non solo i chitarristi ma anche importanti studiosi e analisti dei più diversi ambiti musicologici, non cessa ancor oggi di sollevare, tra gli adepti delle sei corde, domande, obiezioni e curiosità alle quali non è sempre facile rispondere in maniera inequivocabile.
Fra i tanti e diversi punti di vista che possono venire proposti e assunti, di grande interesse è quello della pianista e musicologa francese Gisèle Brelet (1915-1973) riferentesi in particolare alla musica antica, che qui vorremmo esporre in maniera concisa e con qualche breve intervento personale di carattere chitarristico.
Scrive la Brelet.
“Lo storicismo nato nel XIX secolo ha creduto di riscoprire, con un metodo di ricerca storica, l’anima viva e vera di un’opera musicale, restituendola al milieu originale dal quale è scaturita. Esso ha voluto non solo il reimpiego dei testi musicali antichi, ma anche la restituzione acustica di tale musica, rimettendo in uso gli strumenti di epoche passate. E’ senza dubbio un’ottima cosa che questi vengano risuscitati poiché con le loro peculiarità essi possono illuminarla, ma sarebbe assurdo pretendere che la musica antica debba necessariamente venire suonata su strumenti antichi o loro copie. Occorre infatti distinguere l’aspetto sperimentale da quello estetico e riconoscere che la ricerca storica è sapere, mentre l’interpretazione è giudizio estetico, reazione emotiva.
Nell’esecuzione della musica antica bisogna dunque distinguere nettamente due tendenze fondamentali: l’una mirante all’esattezza storica, l’altra alle esigenze dell’uomo attuale. La prima sarebbe sperimentale e scientifica, e potrebbe talvolta produrre effetti all’apparenza assurdi; l’altra sarebbe essenzialmente estetica, e magari capace di ricorrere anche a qualche artificio pur di ristabilire un contatto tra tale musica e la sensibilità dell’uomo di oggi”.
D’altro canto scrive Mario Dell’Ara
“I chitarristi moderni conoscono le musiche per chitarra barocca attraverso la trascrizione operata fin dalla seconda metà dell’Ottocento da Napoléon Coste che per primo incominciò a pubblicare alcuni brani di Robert De Visée. Queste musiche barocche, che si possono benissimo suonare sul pianoforte del musicologo o sulla chitarra moderna del chitarrista amante del repertorio, perdono il loro valore quando […..] non sono riprodotte su uno strumento originale o modernamente ricostruito sui modelli antichi. […..]. Il passaggio dall’intavolatura alla notazione moderna è un’inutile operazione di riesumazione che stravolge il senso originale di una musica che non può vivere altrimenti che nel proprio habitat”.
Di parere opposto è Paul Valéry che nel suo Elogio del virtuosismo scrive:
“Non c’è opera molto bella che non sia suscettibile di una grande varietà di interpretazioni, tutte ugualmente plausibili. La ricchezza di un’opera consiste nel numero di sensi o di valori che può assumere pur restando se stessa”.
Se, stando a quanto scrive Dell’Ara, le pagine chitarristiche barocche perdono il loro valore in seguito alla trascrizione, non può dunque trattarsi che di opere di scarso valore e, in effetti, a fronte di una produzione musicale barocca che vanta autori, per fare solo alcuni nomi, quali Purcell, Frescobaldi, Couperin, Vivaldi, Bach, Händel e Weiss, delle decine di chitarristi barocchi da lui citati non si salvano per una qualche duratura notorietà che Sanz, De Visée e “un certo Roncalli”: i soli tre che figurano ancora con una discreta frequenza negli odierni programmi concertistici.
Dal canto suo, quasi a spiegare la ragione di tale rara sopravvivenza, la nota studiosa francese è dell’idea che: “Le opere belle rivelano un dualismo per il quale sembrano dotate di una esistenza ideale permanente che nell’esecuzione si può realizzare in maniera variabile. Esse si sostengono per il valore intrinseco di tale loro esistenza ideale e sono favorevoli alla trascrizione indipendentemente dallo strumento sul quale vengono eseguite”. E aggiunge: “Si deve riconoscere che ogni tipo di musica è in rapporto con un certo tipo di uomo al quale si rivolge e, pertanto, noi non potremmo capire una musica del passato che divenendo quegli stessi uomini del passato per i quali tale musica fu scritta ma, in realtà, non possiamo gustare la musica del passato che con la nostra sensibilità di uomini attuali. Per quanto possa venire esattamente ricostruita nella sua verità sonora, ossia suoni acusticamente come allora, tale musica suonerà per noi emozionalmente in maniera diversa.
E’ dunque vano cercare di sentire un’opera antica come fu ascoltata dagli ascoltatori suoi contemporanei. Anche se ci fosse restituita l’esecuzione esatta, noi la sentiremmo sempre a modo nostro. Per noi si tratterà sempre di un’opera trascritta della quale ad affascinarci sarà il timbro insolito ed evocatore. Dunque, rispettare l’opera musicale di un’epoca antica non vuol dire imprigionarla in un passato morto come vorrebbe chi ritenga che non possa vivere altrimenti che nel proprio habitat, ma ricrearla secondo le esigenze della nostra attuale sensibilità. Per scrupolo storico si arriverebbe in effetti ad arrestare il corso della storia e l’evoluzione naturale dell’opera musicale la quale può superare la barriera del tempo solo adattandosi successivamente a ciascuna epoca. In certi casi, persino il controsenso storico può servire la verità estetica. Così, una modificazione nella maniera di suonare un pezzo o una trascrizione su uno strumento moderno, possono rianimarlo riadattandolo a noi stessi.
A volte alcune composizioni rivelano meglio se stesse nella trascrizione che nella versione originale poiché, oltretutto, lo strumento per il quale un autore scrive, presenta sempre allo stesso tempo risorse e difetti. Sarebbe dunque ridicolo rispettare, per scrupolo di verità storica, quei dati strumentali che possono limitarne la realizzazione”. E conclude: ”Bisogna non sopravvalutare i testi scritti ma confrontarli con il reale contenuto spirituale da trasmettere. Non di rado, infatti, il testo originale può anche tradire l’essenza vera di un’opera e ciò può autorizzare l’esecutore ad apportare delle modifiche materiali al fine di rispettarne il reale valore musicale”.