Intervista a Mauro Storti (Parte I)

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Angelo Barricelli:  Lei ha cominciato a studiare da autodidatta, ci può dire di questa esperienza?

Mauro Storti: Per risponderLe in maniera esauriente devo ricordarLe innanzitutto qualche dato anagrafico che non figura nel mio curriculum ufficiale: Modena 1937. Cito Modena per il debito che la chitarra ha con la mia città natale dove un certo professor Romolo Ferrari si è speso per sostenere il nostro strumento in uno dei suoi momenti più bui. Chi ha avuto modo di conoscere la rivista L’Arte chitarristica sa quale è stato il suo contributo culturale e organizzativo per tenere accesa la famosa fiaccola della quale già parlava Sor riferendosi a Federico Moretti.

Cito poi l’anno 1937 per andare indietro nel tempo e ricordare che a quell’epoca la chitarra classica era pressoché  ignota, grazie ad una radio di tipo nazional-popolar-patriottico che inondava l’etere di canzonette come Maramao perché sei morto o, nel migliore dei casi, di romanze napoletane e arie celebri della musica lirica. Superate le tristi vicende della guerra, una mia zia suora convinse i miei genitori a mandarmi presso di lei in collegio al fine di alleggerire la difficile situazione economica della mia famiglia gravata di altri due figli.

Fu colà che cantando gregoriano, Perosi, Hëndel, Palestrina e…Verdi, imparai a leggere la musica (mi piace intravvedere in questo e in altri successivi tratti autobiografici una certa curiosa analogia con la biografia di Fernando Sor!).

Rientrato in famiglia dopo cinque anni, mi ritrovai in un paesino nei pressi di  Bari, dove mio padre era stato trasferito per lavoro, e fu là che per puro caso mi capitò fra le mani una chitarra. Munito del solito manualetto di griglie accordali, e superata la prima sorpresa venutami dal constatare che gli  accordi andavano fatti con la mano sinistra anziché con la destra, mano indubbiamente più agile e forte, riuscii pian piano ad impadronirmi dei più comuni giri tonali per accompagnare le canzoni.

Era il momento dei cantanti-chitarristi i cui massimi esponenti erano Roberto Murolo, Rino Salviati e Alfredo Del Pelo (che Oscar Ghiglia ricorda come suo primo insegnante). Fornito di una discreta qualità vocale e di una buona pratica di accompagnamento, mi fu data spesso la possibilità di esibirmi con successo tanto alla radio che alla neonata televisione. Di quel periodo ho un ricordo particolarmente caro del M° Nino Rota, allora direttore del Conservatorio “Piccinni” di Bari che avevo occasione di incontrare spesso presso una famiglia che lo ospitava. Gli piaceva sentirmi cantare accompagnandomi con la chitarra e mi chiedeva spesso alcune canzoni da lui favorite che avevo allora in repertorio.
(ricordo ancor oggi con emozione come oltre dieci anni dopo aver lasciato Bari,  nel gennaio del 1971, in occasione  di un mio concerto a presso l’Accademia Polifonica Barese, mi telefonò mentre stavo pranzando a casa di amici per scusarsi di non aver potuto assistere al mio concerto perché indisposto).

Quando però un giorno mi accadde di ascoltare alla radio un meraviglioso pezzo sconosciuto suonato da un chitarrista altrettanto sconosciuto (avevo 14 anni, frequentavo l’Istituto Tecnico Industriale e seppi poi che si trattava di Recuerdos de la Alhambra e di Manuel Diaz Caño) la mia vita cambiò ed ebbe inizio un’altalenante avventura con la chitarra classica, fatta di tenacia appassionata e di un alternarsi di momenti esaltanti e di momenti deprimenti.

Partito alla ricerca di un metodo per chitarra classica non trovai, nel negozio più fornito di Bari, che il Metodo di Carulli sul quale, sapendo leggere la musica, posso dire di essermi avventato col più grande entusiasmo, letteralmente affascinato dai deliziosi studi di quel “genio della facilità”. I primi problemi mi si affacciarono per la mancanza di indicazioni sulla diteggiatura della mano destra che non andavano oltre l’indice sulla terza corda, il medio sulla seconda e l’anulare sulla prima.

Tornato al negozio di cui sopra e consultato un catalogo, mi sembrò di poter trovare maggiori chiarimenti in un Gran Metodo para Guitarra di Aguado-Sinopoli, scritto in spagnolo e dal costo non irrilevante, per allora, di Lire 3.000. Munito di un dizionario e di una indefettibile fiducia in tanto libro, mi cimentai per tre anni su quello che oggi definirei un vero “letto di Procuste” (e non sarà l’unico…).

il_letto_di_procuste

Nel 1957 avviene un fatto curioso ma importante: giunto a Roma per fare un’esibizione alla televisione scopro che si è rotta la quarta corda e, da bravo ragazzo squattrinato, non ne ho una di ricambio e, poiché è domenica, i negozi sono chiusi. Telefono al Benedetto Di Ponio, da poco nominato docente al Conservatorio di S.Cecilia, che molto gentilmente mi invita a casa sua. L’incontro si svolge in maniera inattesa. Dapprima mi racconta della sua classe e dei bravissimi allievi Gianluigi Gelmetti, Oscar Ghiglia e Giuliano Balestra, poi mi chiede con chi ho studiato e su quali testi e, senza sentirmi suonare e pur sapendo che sto per andare in televisione, dichiara perentoriamente che “se sono autodidatta e ho studiato soltanto sull’Aguado-Sinopoli non posso saper suonare la chitarra”.

Io gli chiedo umilmente consiglio e il Maestro mi elenca una dozzina di testi che dovrei studiare a fondo e integralmente. Ricordo in particolare Il Sagreras (7 volumi); il Metodo di Hilarion Leloup; quello di   Arenas (3 volumi); il Metodo di Sor ; gli Studi di Coste; il Munier;  il Carcassi (3 volumi); il Giuliani (non ricordo quanti volumi)… e così via.

Esco da casa sua con una corda in mano ma con molta confusione nella testa e alquanto scoraggiato…

willy il coyote
Tornato a Modena dai miei nonni in occasione delle vacanze scolastiche, su consiglio del liutaio Walter Masetti mi reco in Via Selmi 40 dove, in un grande magazzino, il Cavalier Berlini Benedetto (da cui poi Ber-ben) raccoglie e vende metodi e spartiti per chitarra di tutte le edizioni italiane e straniere. Faccio incetta di metodi e spartiti ma la sola vera novità dalla quale posso dire di aver tratto grande profitto fu allora per me il Sagreras, a quel tempo quasi sconosciuto, che contrariamente all’Aguado mi forniva un repertorio di studi molto piacevole e coinvolgente la tastiera in tutta la sua estensione.

Un concerto di Alirio Diaz nel ridotto del teatro Petruzzelli di Bari veniva finalmente, dopo sei anni di studio in totale solitudine, a segnare un passo decisivo nella mia vita.

Alirio Diaz

Trasferitomi l’anno successivo a Milano per lavoro, mi parve di poter trovare nell’arcinoto Maestro Miguel Abloniz una guida sicura, ma dopo alcuni mesi di lezione mi resi conto che, nonostante i suoi apprezzamenti sul mio modo di suonare, non facevo alcun  progresso e i miei problemi restavano incompresi e senza soluzione. Quando mi congedai da lui, intenzionato a recarmi all’Accademia Chigiana, mi disse: ”Chissà se ci rivedremo: quando i miei allievi vanno a Siena, non tornano più! ”.

Così fu infatti: dopo un fugace soggiorno a Siena, dove non  ricevetti altro da Alirio Diaz che i complimenti per la mia musicalità, il consiglio di affrontare pezzi più impegnativi e ascoltare molti dischi, ripresi la mia vita da autodidatta, studiando tenacemente sul Metodo del Pujol, gli Studi di Sor e le Scale di Segovia senza tuttavia riscontrare alcun reale progresso. Posso dire che quello fu il momento più buio del mio rapporto con la chitarra.

buio

Accadeva che ogni tanto, scoraggiato, io riponessi fuori mano libri e strumento per non pensarci più, salvo poi essere ripreso da insopprimibili attacchi di nostalgia e ricominciare. Quando infine nel 1962, in occasione di un concerto di Segovia al Teatro Nuovo di Milano, ebbi modo di osservare da vicino le mani del Maestro, credetti di aver capito dove sbagliavo, e dico “credetti” perché evidentemente non avrei potuto avere alcuna certezza sull’esattezza delle mie intuizioni che dopo una congrua sperimentazione … che durò per ben due anni!

Nel 1964 la sperimentazione aveva dato esito positivo e potevo finalmente vedersi aprire davanti a me un futuro di chitarrista.

Eureka-logo

Tralascio qui le curiose vicissitudini relative agli esami complementari di armonia e storia della musica da me sostenuti come privatista, malgrado fosse allora proibito, presso il Conservatorio di Milano. Degno di essere raccontato è soprattutto l’episodio di quando, dietro consiglio del Maestro Francesco Tissoni, mio insegnante di armonia, mi presentai all’esame portando con me la chitarra nel caso fosse possibile usarla per eseguire le modulazioni: al momento di entrare, uno dei commissari guardandola con un’ombra di sospetto mi chiese, indicando con un dito l’astuccio:“Che cos’è?” “Una chitarra”, risposi. “La lasci fuori!”, ribatté come si trattasse di un cane. La lasciai fuori dall’aula con la paura di non ritrovarla più. Questa era la considerazione in cui era tenuta la chitarra al Conservatorio di Milano nell’anno di grazia 1966!

chitarra rotta

Angelo Barricelli: Cosa le hanno dato i due grandi chitarristi di cui è stato allievo, Alirio Diaz e Andrés Segovia? (sono curioso soprattutto di sapere di Alirio che ho avuto il piacere di conoscere al recente Festival di Fiuggi ).

Mauro Storti: Il mio secondo incontro con Diaz, nel 1964, fu più proficuo ed entusiasmante. Pur non interessandosi a particolari problemi tecnici o didattici il Maestro, estremamente generoso nell’elargire la sua arte, ci dava modo di  conoscere un magnifico e vario repertorio e ciò fu per me di grandissimo esempio e di potente stimolo per continuare negli studi. Di quei giorni ricordo anche con affettuosa simpatia il rapporto di fraterna amicizia instaurato con Mario Jalenti, chitarrista di grande sensibilità e dal suono stupendo.

La possibilità di seguire un corso di Segovia mi si presentò l’anno successivo a Santiago de Compostela, quando venni ammesso tra i 16 allievi effettivi (ricordo in particolare Aldo Minella, Oscar Ghiglia, Michael Lorrimer, Richard Johnson, Barbara Polashek, Brigitte Zaczeck e Dante Brenna). Come si può notare dal video, ero molto emozionato provenendo da un ultradecennale percorso di studio da completo autodidatta e trovandomi davanti al più famoso e ammirato maestro di chitarra.

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Il Maestro ascoltava con molta attenzione, parlava pochissimo e suonava ancor meno. La sua parsimonia nelle informazioni di natura tecnica e musicale fu pari a quella delle sue esecuzioni: un solo breve Preludio di Bach a beneficio di una troupe televisiva americana venuta a registrare le lezioni.

Dal contatto diretto con il mitico Segovia non posso dunque dire di aver tratto particolari benefici: durante tutto il corso non si fece che suonare musica per chitarra in maniera assolutamente acritica, seguendo il suo dettato.

Si dice che l’arte non si insegna ma si ruba e, in effetti, pareva che noi tutti fossimo là a mostrargli quanto avevamo saputo rubare dai suoi concerti, dai suoi dischi, dai suoi scritti, dalle sue diteggiature. In definitiva, dunque, per quanto concerne la mia formazione tecnica mi considero totalmente autodidatta e in buona misura debitore anche ai miei studi di carattere scientifico, mentre sul versante della formazione estetico-chitarristica mi ritengo allievo spirituale diretto di Alirio Diaz e indiretto, per disco interposto, di Andrés Segovia.

Angelo Barricelli: Durante il periodo in cui ha suonato, com’era il livello e  quali erano i programmi più eseguiti e anche più interessanti ?

Mauro Storti: E’ evidente che l’impatto culturale creato dall’eccezionale e affascinante figura segoviana, universalmente nota e apprezzata, non poteva che tradursi in una totale adesione estetica e tecnica dei chitarristi al suo repertorio, noto e diffuso in tutto il mondo grazie anche all’imponente discografia. Il repertorio di scuola italiana era pressoché ignorato mentre l’impronta ispanica occupava il primo posto assoluto, che si trattasse di musica antica (Milan, Narvàez, Mudarra), di musica originale ottocentesca (Sor, Tárrega, Llobet, Albéniz, Granados) o di musica moderna anche di autori non chitarristi (Ponce, Turina, Torroba, Villa-Lobos e l’italo-spagnolo Castelnuovo-Tedesco). Ovviamente Bach occupava nei programmi del Maestro un posto d’onore, oltre che per l’intrinseco valore, per la preziosa ed eccezionale testimonianza delle serie possibilità contrappuntistiche della chitarra.

Occorre poi ricordare che se oggi chiunque può produrre in proprio un CD, la possibilità di incidere un disco prima degli anni ’70 era riservata a pochi e validi interpreti che, salvo rare eccezioni (leggi, ad esempio, Diaz, Bream, Williams e Yepes)  proponevano per lo più il medesimo repertorio del Maestro.

Angelo Barricelli: Che possibilità artistiche e lavorative c’erano allora?

Mauro Storti: Se parliamo degli anni sessanta, la possibilità di fare concerti era molto esigua. Lo strumento doveva ancora affermarsi e le grandi istituzioni concertistiche chiamavano raramente soltanto i nomi illustri succitati e, magari ogni 10 anni, Segovia. A partire dai primi anni sessanta l’opera di divulgazione di quei Maestri cominciò a dare i primi frutti e la comparsa della chitarra fra gli strumenti in cartellone nelle stagioni concertistiche divenne più frequente, malgrado la rosa dei concertisti fosse ancora assai ristretta: Mario Gangi, Elena Padovani, Bruno Tonazzi, Enrico Tagliavini, Angelo Amato, Oscar Ghiglia, Sergio Notaro, Linda Calsolaro e pochi altri.

Nello stesso tempo, a fronte di un consistente incremento della richiesta di lezioni di chitarra nelle scuole private di musica, con l’avvio delle scuole medie ad indirizzo musicale si dovette prendere atto che mancava un numero sufficiente di insegnanti diplomati per ricoprire  i numerosi incarichi disponibili. Non era infrequente a quell’epoca l’assunzione diretta da parte dei presidi di studenti in possesso delle sole licenze di solfeggio e del V anno di strumento ma poi, con l’aumento del numero di Conservatori e il conseguente aumento del numero di diplomati, la disponibilità di posti di lavoro è andata poco a poco riducendosi fino a creare quella che oggi si presenta come una difficile situazione di saturazione.

Angelo Barricelli: Chi erano i suoi colleghi del Nuovo Trio di Milano e che tipo di rapporto ha avuto con Castelnuovo Tedesco e gli altri importanti artisti  con cui ha avuto a che fare?

Mauro Storti: L’idea di dar vita nel 1964 ad una tale formazione fu di Giuseppe Montrucchio e Alessandro Ferrero, rispettivamente primo flauto e primo oboe dell’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano insieme al chitarrista ferrarese Leonida Squarzoni la cui partecipazione non andò tuttavia oltre il concerto del debutto. Chiamato a sostituirlo pensai, dopo qualche tempo, che sarebbe stato bello disporre di composizioni originali che potessero dare maggiore risalto alla peculiare natura del complesso.

Decisi dunque di rivolgermi a Castelnuovo-Tedesco, anche se la speranza di ottenere una risposta positiva da un autore di tale notorietà fosse veramente esigua. Un ensemble strumentale costituito da flauto, corno inglese e chitarra può sembrare, se non proprio bizzarro, quanto meno anomalo rispetto alle più tradizionali e consacrate formazioni cameristiche. E’ però evidente che l’impasto sonoro generato da un dialogo di trasparente chiarezza, quale può essere quello fra due voci così diverse per timbro e per tessitura (al punto da potersi azzardare l’idea di una loro connotazione maschile e femminile) e il morbido ed avvolgente alone armonico creato da una chitarra, può risultare non solamente originale ma estremamente seducente.

Con mia grande sorpresa ricevetti, nel mese di marzo del 1966, la prima di numerose lettere che mi fecero scoprire l’estrema gentilezza e disponibilità del Maestro:“Le dico subito che la combinazione di Flauto, Corno inglese e Chitarra mi piace molto. Le posso anche dire che cosa vorrei scrivere per il Suo gruppo: 3 Ecloghe. Calcoli che le richieste per nuovi lavori si accumulano sul mio tavolo prima che io possa soddisfarle! E non creda alla leggenda della mia facilità! A scrivere musica che voglia dire qualche cosa ci vuole tempo (e fatica! .. .). Perciò … abbia pazienza! … E magari, di quando in quando, mi rammenti questa che non è una promessa (poiché alla mia età e coi miei acciacchi, di promesse non oso più farne), ma  un’intenzione ed un segno di sincero interesse per Lei e per il Suo Gruppo”. E solo due mesi dopo:“Grazie del Suo svegliarino! Ma non creda che avessi dimenticato la mia promessa. Cercherò di completare il lavoro al più presto. Ma, badi, non si aspetti gran cosa: sono proprio dei pezzettini senza importanza, tanto per mostrare la mia buona volontà“. La prima esecuzione delle Eclogae Op.206 (non tre ma quattro!) ebbe luogo il 16 marzo 1967 nell’Auditorium della Civica Scuola di Musica di Milano.

Un altro importante personaggio con il quale ho più tardi intrattenuto un simpatico e fraterno rapporto è stato Ruiz Pipò, uomo dallo spirito acuto, vivacissima intelligenza musicale e grande cultura mai esibita.

Ruiz Pipò con Mauro Storti

Mauro Storti con Ruiz Pipò

Angelo Barricelli: Durante la sua  attività concertistica,ha avuto il piacere di collaborare con altri bravi colleghi con scambi di idee, pareri, etc.etc. insomma con una visione a 360 gradi  senza competizioni a tutti i costi, a volte con invidie e/o gelosie (com’è un po’ di moda oggi)?

Mauro Storti: Credo che competizione, invidia e gelosia siano sempre esistite e non siano solo appannaggio del “basso pollaio” chitarristico, poiché il peggio può spesso venire anche dalle persone più intelligenti o presunte tali. D’altronde, non è intelligente anche il diavolo? Se siamo costretti a vivere con i nostri contemporanei, possiamo forse non essere obbligati ad occuparci di quelli che per noi si rivelano cattivi compagni di viaggio; conviene perciò ignorarli e dirigere le nostre energie positive verso attività costruttive.

Angelo Barricelli: Come valuta l’attuale panorama concertistico italiano, in particolare le giovani leve? Ha un consiglio, una ricetta da dare ad un giovane di talento relativamente  alla professione di concertista?

Mauro Storti: Accade spesso di ascoltare ottimi giovani chitarristi che sono la prova tangibile del positivo e generoso lavoro svolto in campo didattico dalla generazione precedente. Bisogna però chiedersi come mai alle poche grandi personalità del passato fanno riscontro le tante personalità mediocri di oggi. Non vorrei essere frainteso e cerco di spiegarmi meglio. Non dimentico ciò che mi disse  Nino Rota quando la chitarra stava per essere ammessa nei Conservatori: “Staremo a vedere se accadrà ciò che è accaduto per il pianoforte: oggi non ci sono più i grandi pianisti di una volta!”. Chi ha avuto la fortuna di ascoltare i grandi chitarristi degli anni settanta, può raccontare di un’indescrivibile commozione e di un irrefrenabile entusiasmo suscitato dai loro concerti. Segovia che recitando le liriche di Platero con un filo di suono, interrotto dalle lontanissime campane della chiesa di San Babila sospende l’esecuzione e sussurra ad un pubblico raccolto in religioso silenzio un donchisciottesco “Non posso lottare con le campane!” sollevando uno scroscio di applausi; un Alirio Diaz che dopo un esaltante récital nella sala grande del Conservatorio viene subissato da ben sette richieste di bis!

Angelo Barricelli:  Cosa manca oggi al giovane talento che snocciola con la più assoluta perfezione un rosario di suoni? Cosa manca al celebrato maestro dal curriculum osannante e chilometrico se alla fine del suo récital il pubblico si defila silenzioso?

Mauro Storti: Bisogna rendersi conto che i suoni non diventano musica se non c’è l’anima e la capacità di comunicare. A chi gli chiedeva perché la chitarra non avesse l’anima come il violino, Segovia rispondeva: ”Perché  il chitarrista deve metterci la sua!”. Per riuscirci non basta suonare, ma occorre anche studiare, studiare e  studiare, coltivando la sensibilità artistica e il potere comunicativo.

Infine, occorre valutare attentamente la scelta del repertorio. In queste parole di Manuel De Falla si possono ravvisare le linee guida del repertorio più congeniale al nostro “strumento ammirevole, tanto sobrio quanto ricco che, rude o dolce, sa soggiogare lo spirito e nel quale, col passar del tempo, si sono venuti a sedimentare i valori essenziali di nobili strumenti decaduti dei quali raccoglie l’eredità senza rinunciare al suo carattere e a quanto deve al popolo per le proprie origini”. E’ dunque consigliabile rifuggire da certe forzature intellettualistiche che non le sono proprie e che solitamente non giocano né a favore della chitarra, né a favore del chitarrista, e spesso neanche a favore del compositore.