Il Disincanto

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Se andiamo a cercare la definizione letterale della parola disincanto troviamo, tra l’altro:”Consapevole rinuncia alle illusioni”. Credo non esista termine più appropriato per definire la disposizione d’animo che sempre più spesso ci pervade prima, durante e dopo un récital di chitarra. Quanti, come chi scrive, hanno vissuto l’avventura della chitarra dagli anni ‘50 in poi, ossia partendo dai primi e rari ascolti di Andrés Segovia, di Alirio Diaz, di Manuel Diaz Caño, di Ida Presti e di Luisa Walker, non possono non ricordare con nostalgia quelle vive ed entusiasmanti esperienze. Abbiamo pur provato a chiederci, per onestà intellettuale, se buona parte di tanta entusiastica emozione non fosse da attribuirsi alle nostre ancor limitate capacità critiche ma, grazie al Cielo, l’ascolto delle vecchie incisioni discografiche ci consente di ritenere che, se poteva essere carente in noi il senso critico, le nostre orecchie, per contro, funzionavano a meraviglia.

Con il passare degli anni la chitarra ha via via recuperato una dignità storica, è entrata nei Conservatori e nelle sale da concerto, ha ottenuto tributi e riconoscimenti da compositori illustri ed ha attratto uno stuolo di cultori a vario titolo ma oggi, ascoltando certi solisti, ben difficilmente è dato rivivere l’incanto di allora. E ciò non è attribuibile ad un nostro più maturo e magari esasperato senso critico, poiché può ancora capitare, seppure raramente, di essere colti da qualche inatteso sussulto di entusiasmo, tale da far dimenticare la tristezza dei concerti senza bis o dei bis senza pubblico.

Ecco dunque la ragione del nostro disincanto: ci illudevamo che il luminoso esempio dell’arte segoviana avrebbe guidato il cammino delle generazioni chitarristiche successive, ma abbiamo dovuto constatare che alla straordinaria perfezione della tecnica chitarristica odierna, inimmaginabile ai tempi della mitica Accademia Chigiana di Siena, fa riscontro un’altrettanto straordinaria caduta del senso poetico, della forza espressiva e della capacità comunicativa. Le esecuzioni hanno perso ogni vitale plasticità per sottomettersi ad un freddo e ferreo rigore metronomico che, come una camicia di forza, inibisce ogni moto dell’anima, tanto di colui che suona quanto di coloro che ascoltano. Come bene dice il Mathis Lussy:“un esecutore non può esprimere ciò che non l’ha impressionato“.[1]

Se poi veniamo sul versante del repertorio, non si può che deplorare l’operato di quanti, critici, compositori e concertisti, mossi da una snobistica urgenza di conferire alla pur umile chitarra un’aristocratica nobiltà scevra da ombre e compromessi, l’hanno portata a sconfinare da quei limiti così bene individuati da De Falla: “strumento ammirevole [….] che raccoglie l’eredità di nobili strumenti decaduti senza rinunciare al suo carattere e a quanto deve al popolo per le proprie origini”. Si sono potute leggere, al contrario, le più esaltanti quanto cervellotiche critiche su composizioni non meno cervellotiche o comunque, come osservava lapidariamente un Direttore di Conservatorio: “semplicemente inutili”. Né è mancato chi ha affermato che il giovane studente deve dimenticare di suonare una chitarra per pensare unicamente a fare Musica con la M maiuscola, cosa che, mutatis mutandis, equivarrebbe a negare l’esistenza dell’orchestra, con tutti i suoi colori.

Vogliamo ancora meravigliarci se accade che, finito il concerto, il pubblico non chieda il bis o si dilegui prima che il concertista ricompaia sul palcoscenico? Qualcuno ha detto che l’arte senza brivido è solo esperimento. Siamo d’accordo. Non rimane che augurarsi che certi giovani concertisti che oggi vanno per la maggiore (non sempre e solo per meriti artistici) sappiano cercarlo, il brivido, e una volta trovatolo, provino a cimentarsi nel difficile compito di trasmetterlo a quanti stanno ad ascoltarli.


[1] Mathis Lussy: Traité de l’expression musicale (Heugel, Paris).