Il Cimento Dell’Arte E Della Tecnica

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“E’ notorio che l’artista ha una ripugnanza istintiva per qualsiasi teoria, ed è questa la ragione per la quale i grandi artisti si rifiutano di insegnare. Si può invero sistematizzare i mezzi tecnici, ma sistematizzare la loro applicazione è contrario alla vita”.
Se questa frase del musicologo e didatta tedesco Walter Howard avesse un indiscutibile fondamento, non si spiegherebbe l’odierno fiorire di master-classes (a meno di pensare che siano tenute solo da artisti mediocri) ma, soprattutto, si dovrebbero chiudere tutte le più o meno illustri scuole di danza e di teatro!

In realtà, non sono mai mancati, seppure in numero assai esiguo, artisti di rilievo mossi dal desiderio di scoprire i nessi di causa-effetto fra teoria estetica e pratica materiale da fare assurgere a chiave di volta di un definito sistema didattico. Se ci si sofferma in particolare sulle arti del tempo, ossia musica, danza e recitazione, si deve convenire che per la caducità stessa della loro esistenza esse vanno soggette all’ineludibile necessità di disporre di una tecnica espressiva capace di rendere manifesti, momento per momento, la natura e l’intensità degli impulsi emozionali. Ciò non può che dar luogo a percorsi temporali obbligati e in certo qual modo ripetitivi, come ripetitivi possono essere i moti dell’animo umano.

Se dunque la manifestazione dei sentimenti si traduce necessariamente in gestualità espressiva, può essere lecito pensare che un gesto espressivo sia l’effetto di un sentimento vero in colui che lo compie, ma non sempre è così poiché oltre alla verità esiste anche la finzione.

Prendiamo ad esempio un sorriso: se esso è vero, e dunque rivelatore di uno stato d’animo lieto e ben disposto, non può che suscitare sentimenti reciproci di gentilezza e cortesia nell’animo di colui al quale è diretto. L’atteggiamento sorridente del volto può tuttavia non corrispondere a tali sentimenti e, non essendo tanto trasparente da rivelare il vero stato d’animo di colui che sorride, suscitare ugualmente in colui che l’osserva, sentimenti di gioia e gentilezza. Si pensi al sorriso delle ballerine che, lungi dal manifestare a chi le osserva il benché minimo segno dell’ardua fatica cui sono soggette nel danzare, conferisce loro un alone di leggiadra bellezza capace di affascinare la platea.

Si può dunque parlare di una tecnica espressiva che, senza dover essere necessariamente “vera”, può nondimeno essere “verosimile”, ossia credibile e concreta messaggera di una verità artistica. Per questa sua concretezza materiale, fatta appunto di gesti e atteggiamenti corporei, l’espressione non è dunque qualcosa di vago, tanto sfuggevole e inafferrabile da non poter essere ridotta ad un compendio di formule positive e scientifiche su cui fondare una metodologia didattica.

Può essere interessante leggere la seguente testimonianza dell’attore russo Vassili Toporkov relativamente alla nascita della famosa scuola teatrale fondata da Konstantin Stanislavskij (1863-1963).

Constantin Stanislavskij“Quando, più di cinquant’anni fa, cominciai a studiare l’arte scenica, nel mondo del teatro, e soprattutto fra i vecchi attori, c’era una prevenzione contro le scuole. Si riteneva che l’arte drammatica non si potesse imparare in una scuola ma solo con la pratica del palcoscenico.

A quel tempo, la maggior parte degli attori non aveva alcuna scuola, essi recitavano, come si diceva, “per intuito” e a tale pratica si attenevano tutti gli scettici ostili all’idea di un apprendistato di tipo scolastico.

A poco a poco, tuttavia, le scuole acquisirono il diritto di cittadinanza e le voci contro l’apprendistato dell’arte drammatica divennero sempre più rare. Si riconobbe che la scuola aveva un diritto legittimo all’esistenza e che pertanto doveva esistere.

All’epoca del mio incontro con Konstantin Stanislavskij la nuova scuola si era compiutamente delineata adottando un nuovo metodo di formazione dell’attore. Cionondimeno, Stanislavskij diceva che la nostra non era ancora un’arte da professionisti, ma era ancora dilettantismo privo di sicure e definite basi teoriche come quelle esistenti, ad esempio, per la musica e le altre arti” .

“Sarebbe mostruoso, diceva, che uno strumentista si limitasse a suonare soltanto in orchestra convinto di perfezionare in tal modo la sua tecnica. Come sarebbe inimmaginabile che un ballerino danzi soltanto durante gli spettacoli e non faccia esercizi quotidiani alla sbarra. L’attore oggi non conosce i più semplici elementi costitutivi della sua arte e non dispone di alcuna teoria né di studi o scale per esercitarsi. Non capisco come ciò sia ammissibile nell’arte drammatica e perché egli ritenga che recitare soltanto negli spettacoli sia pienamente sufficiente per i suoi progressi artistici”.

“Non potendo accettare tale situazione, Stanislavskij non ha fatto per tutta la vita che osservare da vicino il lavoro dell’attore alla ricerca di più solide basi teoriche elementari che potessero condurre, per vie più sicure e più brevi al miglioramento della sua formazione. Egli vagheggiava persino di riuscire un giorno ad approntare delle partiture, dei ruoli, delle regíe ecc. da utilizzare quali temi per esercitazioni.

L’idea di tecnica artistica del Maestro si fondava su un metodo creativo capace di condurre l’attore fino alla soglia di una naturale e intuitiva spontaneità. Quando lavorava con gli attori, ciò che soprattutto mi colpiva era vedere come sapeva preservarli dalle trappole della routine teatrale per istradarli sulla via di un agire vivo e organico. E i risultati di quel lavoro, ottenuti con mille mezzi, mi sembravano quasi miracolosi. Quando ci si rimproverava di montare uno scarso numero di spettacoli perché  la loro preparazione durava anni, il Maestro era d’accordo nel riconoscere che ciò era anormale:

Ma, diceva, per poter montare uno spettacolo al mese, bisognerebbe chiudere il teatro per parecchi anni e mettersi a lavorare alla tecnica della nostra arte. Solo quando gli attori avranno assimilato la tecnica, il regista avrà bisogno di meno tempo per montare uno spettacolo. Immaginate che un uomo venga a trovarmi e mi preghi di insegnargli a cantare un’aria. Io comincio a lavorare con lui e mi accorgo che la sua voce non è ancora ben impostata. Dunque, prima di cominciare ad insegnargli a cantare la melodia, devo fargli fare dei vocalizzi, e soltanto dopo aver consolidata l’impostazione della voce, potrà iniziare lo studio della melodia. Pensate a quanto tempo ciò può richiedere! Ebbene è così: voi venite alle prove con delle voci non impostate e perciò io non dispongo del materiale necessario per creare quell’organismo vivente che è lo spettacolo teatrale. Prima di cucire un costume, devo tessere io stesso la stoffa. Assimilate la vera tecnica, e vi assicuro che potremo montare un nuovo spettacolo ogni mese”.

Sorvolando sulle caratteristiche peculiari, del metodo Stanislavskij, peraltro facilmente reperibili in qualunque trattato di teatro, ciò che emerge da questa testimonianza è l’idea che ogni creazione artistica esige un ineludibile corso preliminare di preparazione tecnica. Per il chitarrista non si tratterà di semplici vocalizzi ma di esercizi fisici e mentali volti a creare l’essenziale bagaglio tecnico occorrente per affrontare il vero e proprio repertorio. Purtroppo, l’idea di una siffatta metodologia è sempre risultata estranea alla didattica chitarristica che ha sempre creduto di individuare in un lungo ed ostinato “assalto” ai cosiddetti Studi e alle pagine più accattivanti del repertorio l’unica via maestra dell’apprendimento.

Che dire? Pare che al chitarrista basti cantare. Se la voce è sgraziata … forse migliorerà!

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