Di Giulio Regondi, dapprima osannato fanciullo-prodigio e per il resto della sua vita concertista a tempo pieno, sappiamo poco. Le frammentarie note biografiche non dicono né come né da chi abbia imparato a suonare la chitarra e ce lo presentano come un bambino di cinque o sei anni praticamente recluso e sorvegliato fra le mura di casa, costretto a studiare cinque ore al giorno da un sedicente padre che aveva intuito la possibilità di trarre consistenti vantaggi economici dalle esibizioni del piccolo fenomeno.
Poiché non si hanno notizie né di metodi né di maestri, non rimane che pensare che la sua stupefacente formazione musicale e tecnica sia frutto di uno straordinario talento. Quando, intorno agli otto anni, si esibisce di fronte a un pubblico entusiasta a Londra e a Parigi, lo stupore dei critici è grande nell’udire una chitarra che “suona come una grande tastiera toccata da dita abilissime che producono un effluvio di ricche armonie e di graziose melodie”. Siamo nel 1830: Giuliani è morto l’anno precedente; il cinquantaduenne Sor, che pubblica in quello stesso anno il suo Metodo (il piccolo Regondi non può ovviamente conoscerlo) ha l’occasione di sentirlo suonare e gli dedica la Fantasia Op.46 Souvenir d’amitié.
A fronte della voluminosa produzione musicale di Giuliani, di Sor, di Coste e di Mertz, l’opera di Regondi giunta fino a noi consta di una decina di pezzi che non occupano più di una cinquantina di pagine, ma la loro attenta lettura riserva incredibili sorprese. Il suo linguaggio musicale non è più quello apollineo del classicismo settecentesco tanto caro a un Carcassi, a un Carulli o a un Molino, né quello appena tinto di romanticismo di un Giuliani, di un Sor o di un Coste, ma è più decisamente quello dionisiaco di un maturo romanticismo.
La melodia, mai banale, è caratterizzata da slanci inusitati e spazia per lungo e per traverso su tutte le corde dello strumento. Per la prima volta la vediamo, corposa e appassionata, muoversi, su una stessa corda o spezzarsi fra le diverse ottave in una sorta di illusionismo acustico del quale solo la chitarra è capace, e al quale sapranno ricorrere ingegnosamente Tárrega, Llobet e Segovia.
Al contrario di Sor, Regondi non mostra alcun imbarazzo ad effettuare i più ampi salti di posizione utilizzando spesso il glissando a scopo espressivo (che diverrà una delle caratteristiche della scuola tarreghiana) e a dislocare le dita della destra su tutte e sei le corde. Con lui il tessuto armonico, che annovera settime artificiali e none, si dilata tanto in forma accordale che arpeggiata, generando sonorità ampie, profonde e talvolta imponenti.
E’ sorprendente scorgere in talune pagine modalità tecniche che verranno adottate come nuove un secolo dopo. Il controcanto del suo tremolo, a bassi sciolti, non interessa solo la prima e la seconda corda ma si spinge fino alla quarta e in ciò fa pensare più a Barrios e a Rodrigo che a Tárrega.
Se certe insolite formule di arpeggio rimandano a Castelnuovo-Tedesco, certi ritmi con accordi in contrattempo, come pure l’uso del pollice su più bassi simultanei rimandano a Villa-Lobos. E se ci si imbatte nel forte e risoluto della IV variazione dell’Op.21 sarà difficile non pensare al finale Grandioso dello Studio n.4 di Villa-Lobos o all’ultima pagina della Sonata Romantica di Ponce.
Regondi ci appare dunque svincolato dalle rigide impronte tecnico-stilistiche della ormai esausta scuola italiana, ma la sua opera di geniale innovatore è troppo in anticipo sui tempi e rimane un fenomeno senza seguito poiché le sue composizioni sono troppo difficili non solo per i dilettanti, sempre in cerca di morceaux agréables ossia pezzi facili e gratificanti, ma anche per lo sparuto manipolo di professionisti orientati per lo più a suonare alla vecchia maniera le proprie composizioni.
Ancora pressoché ventenne, Regondi figura nelle cronache dei più importanti concerti viennesi come suonatore, oltre che di chitarra, di un nuovo strumento da lui collaudato: il melofono, parente della fisarmonica. Vivendo di concerti, poteva in tal veste avere una notevole carta in più da giocare al fine del proprio sostentamento ma, d’altro canto, sarebbe forse azzardato ritenere che avendo egli ormai dato fondo col suo talento alle più spinte risorse espressive della chitarra ottocentesca con tutti i suoi limiti, questa gli andasse ormai “troppo stretta” ?