Francisco Tarrega

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L’INNOVATORE
di Mauro Storti

Per parlare del ruolo determinante da lui giocato sull’evoluzione dell’arte chitarristica, occorre osservare innanzitutto che, sul finire della seconda decade del XIX secolo, Sor e Giuliani avevano ormai dato fondo, ognuno dal proprio versante stilistico, a tutte le risorse dello strumento e, dopo di loro, malgrado il ricorso a titoli suggestivi attinti dal fantasioso vocabolario romantico, la letteratura chitarristica rimaneva di fatto prigioniera per un buon cinquantennio entro i solidissimi vincoli di una ormai cristallizzata tecnica compositiva e strumentale.

Quando, a partire dalla seconda metà del secolo il mondo chitarristico comincia a scuotersi cerca, con l’aiuto dell’arte liutaria, la strada di un aggiornamento, secondo due diverse e ben delineate direttrici: da un lato, un Regondi, un Legnani, un Coste e un Mertz vedono in una accresciuta tessitura dello strumento l’ultima chance per competere con il pianoforte e chiedono ai vari Lacôte, Panormo e Benedict una chitarra ad otto, nove e dieci corde, o il prolungamento della tastiera fino al 24° tasto, mentre sul versante spagnolo, un Arcas e un Tárrega sentono l’esigenza di disporre di uno strumento capace di maggiori prestazioni dinamiche e timbriche e, pur accontentandosi delle sei corde, chiedono a Torres una chitarra più sonora, più equilibrata e più ricca di colori. Sarà questa seconda via, a risultare vincente perchè fondata su motivazioni radicate nella stessa estetica musicale romantica che ormai da mezzo secolo ha preso il sopravvento.

Nello stesso senso vanno le trasformazioni della tecnica manuale. Non v’è dubbio che una chitarra non può offrire grandi prestazioni dinamiche se, oltre ad essere debole strutturalmente, viene suonata con un semplice tocco di trazione. La scoperta e l’utilizzazione sistematica di un tocco di spinta come l’appoggiato rende possibile la realizzazione di più livelli dinamici ben differenziati, facendo venir meno l’egemonia assoluta del cantino e permettendo alla melodia di spaziare liberamente su tutte le sei corde, guadagnando in estensione, rivestendosi dei colori propri di ciascuna di esse e arricchendosi enormemente in forza espressiva. Non più l’unico e monotono timbro delle prime due corde per eseguire indifferentemente qualsiasi melodia[1].

Non più, neppure, una melodia sempre e solo “galleggiante” su un sottostante flusso armonico appesantito con troppa frequenza da interminabili pedali sulle corde a vuoto, ma una melodia capace di insinuarsi e muoversi a suo agio dentro lo stesso tessuto armonico, costringendolo a dilatarsi su tutte le corde, tanto gravi che acute. Gli accordi a parti strette di Sor e di Giuliani devono cedere il passo a quelli aperti e sonori di Regondi e di Tárrega, dando avvio ad un processo di superamento di quel rigido schema compositivo di stampo quartettistico che condurrà al totale scambio di ruoli fra le diverse corde in una dialettica dinamica e timbrica di tipo orchestrale.

Scampata dunque al pericolo di uno sviluppo ipertrofico come quello che fu tra le cause della scomparsa del liuto, la chitarra può riaffacciarsi al palcoscenico musicale rinnovata e moderna, pur restando fondamentalmente se stessa. Tale processo non è di breve durata e se possiamo intravvedere nelle opere di Regondi un primo preciso avvio, il conclusivo esito di tutta l’operazione è da attribuire all’importante lavoro di trascrizione attuato da Tárrega. L’idea accampata da qualcuno che egli, dimentico dei tesori chitarristici di un passato più o meno remoto, abbia perso il suo tempo invano cercando di adattare alla chitarra pagine musicali destinate ad altri strumenti è da respingere fermamente. Osservando il fenomeno da un punto di vista diametralmente opposto, possiamo invece dire che tutto il suo lavoro fu indirizzato alla ricerca di una possibilità di adattamento della chitarra alle esigenze della musica del più alto e nobile livello.

Alle soglie del Novecento, i suoi eredi, diretti o indiretti, poterono cogliere i frutti della sua paziente indagine sulla natura dello strumento e sui suoi più nascosti ed affascinanti mezzi espressivi. Da dove sarebbe altrimenti scaturito quell’Homenaje di De Falla con il suo sorprendente gioco di stratificazioni timbriche? E a quale fonte avrebbe attinto Llobet per ricreare le sue splendide Canzoni catalane, se non al rinnovato catalogo tecnico-espressivo approntato dal suo Maestro? Questa ci sembra la vera chiave di lettura capace di dare l’esatta dimensione della figura artistica di Tárrega e della rivoluzionaria portata storica del suo lavoro.


1 – E’ molto istruttivo, a tale riguardo, l’esame delle Rossiniane di Giuliani nelle quali, se si eccettua lo sporadico ricorso ai suoni armonici, si può notare un’assoluta indifferenza all’elemento timbrico, indifferenza che si manifesta nella quasi totale mancanza di nesso fra il registro originale delle melodie operistiche e quello adottato sulla chitarra. Soprani,contralti, tenori e bassi: Desdemona come Otello, Cenerentola come don Magnifico, sono forzosamente costretti entrola stretta gamma timbrica delle due prime corde, sicché non solo si perde il carattere più genuinamente espressivo e caratteristico di ogni melodia (si può ben immaginare quale attenta cura abbia posto Rossini nelle sue scelte!), ma tutta la composizione risulta priva di quel prezioso elemento di contrasto tipicamente orchestrale e teatrale che è la varietà timbrica..

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