Tra i più remoti ricordi che affiorano dal nebuloso limbo dei miei primi anni di vita, tre mi sono particolarmente cari per la profonda emozione che ancor oggi la loro evocazione mi procura: la vista del Duomo di Modena, la locomotiva a vapore e (quasi un oracolo) il suono della chitarra. Quando, intorno ai cinque anni, capitava che il vivace manipolo di ragazzini, del quale facevo parte, spingesse le spensierate scorribande fin nei pressi del Duomo, mi sentivo soggiogato da una misteriosa quanto inspiegabile emozione alla vista delle sue stupende forme architettoniche.
E l’emozione toccò il culmine quando, per la prima volta, fui accompagnato in quella suggestiva cripta sotterranea che mi pareva essere il cuore accogliente di una grande madre di pietra. Assai diversa, ma non meno intensa, l’emozione provata alla vista inattesa di una locomotiva lanciata in una corsa folle tra sbuffi di fumo, fischi e sferragliar di bielle e di pistoni. Quanto al suono della chitarra, mi rivedo ancora sgranare gli occhi pieni di stupore davanti all’intrigante ed affascinante tremolio delle sei corde percosse da un dito di mio padre.
Più volte mi sono chiesto, in seguito, quale potesse essere la ragione profonda per la quale, di fronte a fatti così diversi, nascesse in me l’emozione, ossia quello stato d’animo che oggi paragonerei proprio al vibrare di una corda. Di certo, considerando che a quell’età si possano difficilmente avere nozioni di architettura, di meccanica o di fisica acustica, non poteva trattarsi di godimento intellettuale. Forse l’emozione nasceva dallo stupore, ossia dalla contemplazione di un evento sorprendente perché inatteso, inaudito o paradossale ma, nel caso del Duomo, scaturiva sicuramente, più che dallo stupore per la sua mole imponente, dall’armonia di quelle linee che ne fanno uno dei più preziosi gioielli dell’architettura romanica.
Per venire alla musica, mi sembra che operare una distinzione tra l’emozione prodotta dallo stupore e l’emozione prodotta dal gioco delle forme sia, oltre che legittimo, estremamente utile poiché ciò consente da un lato di conferire piena dignità artistica al virtuosismo strumentale e, d’altro canto, di porre in rilievo tutto il valore insito nell’esecuzione calma ed espressiva di un brano musicale.
Può infatti accadere che lo stupore prodotto dall’esecuzione di un funambolico Capriccio di Paganini ci procuri una forte emozione, né più né meno che l’ascolto di un “semplice” Adagio di Beethoven (pur senza sottovalutare il virtuosismo, d’altro genere, insito nel suonarlo “adagio ed espressivo”). E’ evidente che uno strumentista si può definire “grande interprete” se può disporre pienamente di entrambe le fonti generatrici di emozione, ossia la capacità di stupire e la capacità di commuovere. Se la prima sembra essere di più facile acquisizione, come dimostra l’impeccabile virtuosismo di tanti giovani chitarristi, la seconda risulta oggi tanto rara da sembrare irraggiungibile.
E’ forse che la musica non ha più niente da dirci o fa difetto agli esecutori una
tecnica espressiva capace di commuoverci? Se vogliamo rifiutarci di credere che l’odierno tecnicismo esasperato sia giunto a spegnere definitivamente nell’uomo la fonte di quell’inspiegabile emozione che può cogliere, senza apparente ragione, un animo infantile, non rimane che riflettere sulla necessità che chiunque si senta chiamato a svolgere un’attività artistica, coltivi con cura, fin dall’inizio del suo apprendistato, la sfera dei sentimenti, vigilando affinché la tecnica non finisca per uccidere la naturale predisposizione emozionale di chi suona e di chi ascolta.
Ma non basta che l’artista, nel nostro caso il concertista di chitarra, sia sensibile al contenuto emotivo di ciò che suona: egli deve essere in grado di trasmetterlo agli ascoltatori che sono i destinatari finali dell’opera musicale. Se il concetto di emozione è bene inteso, questa non deve scaturire da uno stato d’animo che, assunto “a priori” dall’esecutore, vada a sovrapporsi alla musica, ma deve consistere in una fedele e compiuta realizzazione della sua forma in quanto traccia dell’originale percorso emotivo dell’autore. E per la fedele e compiuta realizzazione della forma non è sufficiente la semplice tecnica strumentale meccanica, ossia la perfetta esecuzione delle note: occorre il ricorso ad una più raffinata tecnica strumentale espressiva fatta di fluttuazioni dinamiche, timbriche, tonali e temporali che, nascendo pur sempre dal rapporto fisico tra mani e strumento, sono da considerarsi oggettivo e fondamentale materiale di studio.[1]
[1] M.Storti: TRATTATO DI CHITARRA, Parte VI (Carisch) e LA CHITARRA ESPRESSIVA, codice elementare della comunicazione musicale (Casa Musicale Eco).