… Come una scia di luce
di Marco Pisoni
Occuparsi in queste pagine di teoria della psicopercezione, può sembrare inutile accanimento intellettuale o scelta astrattamente eccentrica. Nella doppia veste di insegnante universitario di Gestalttheorie (ovvero Teoria della Forma) e di musicista, vorrei convincere il Lettore che l’indagine sul sistema percettivo può invece costituire un approfondimento interessante.
La teoria psicopercettiva gestaltica è un modello interpretativo della realtà, che propone per la comprensione degli stimoli sensoriali (inclusi quelli acustici) alcune modalità che prescindono dalla cultura e dalle esperienze di chi li percepisce. Proviamo a chiederci perché in città gli oggetti su cui naturalmente posiamo l’attenzione sono le auto, considerando la carreggiata come sfondo, e non viceversa, o perché alzando gli occhi, osserviamo le nuvole e non il cielo azzurro. Vi è qualche ragione fisicamente obiettiva che ci induce ad una determinata scelta tra sfondo e figura? Perché nell’ascolto seguiamo primariamente lo svolgimento del canto e non l’accompagnamento? E ancora, come mai assegniamo la stessa identità formale alla linea melodica di ‘Giochi proibiti’, sia che essa si presenti in mi, in la o in re minore?
Il pensiero gestaltico ritiene che poche regole elementari ‘impongano’ a tutti di identificare gli oggetti o le forme rispetto al contesto, anche indipendentemente dalle sfere sensoriali interessate e dalla volontà: percepiamo cioè le unità sonore (ma anche visive o tattili) , secondo alcuni meccanismi automatici innati. Possiamo indirizzare la nostra attenzione sul cielo mettendo in secondo piano le nuvole, ma dobbiamo esserne indotti con un maggiore sforzo di concentrazione, spendendo una maggior quantità di energia.
Nel nostro rapporto con la realtà circostante, utilizziamo frequentemente la regola della ‘somiglianza’: cioè aggreghiamo più facilmente fra loro gli stimoli senso riali i o gli elementi dotati di caratteristiche simili. In una composizione orchestrale, associamo fra loro suoni con il medesimo timbro e quindi strutturiamo l’ascolto in parti eseguite dagli archi, dai legni e così via. Allo stesso modo, una fila indiana di scout che attraversa la strada affollata di altre persone mantiene la sua identità per la somiglianza delle divise dei ragazzi. E’ questa quindi la giustificazione fisiologica che spinge il chitarrista a mantenere un tratto melodico su una sola corda della chitarra, con un medesimo tocco delle dita.
La somiglianza è un forte fattore di coesione fra le parti di un tutto. Usiamo frequentemente, e sempre in modo automatico, anche il fattore della “vicinanza”: uniamo formalmente suoni ravvicinati nel tempo, piuttosto che suoni lontani fra loro. Se batto le mani due volte, percepisco una “coppia” di battiti. Se batto le mani una volta oggi ed una domani, ben difficilmente riesco a segregare la forma detta “coppia” da uno sfondo considerato “silenzio”. In musica ciò va tenuto in considerazione per lo stacco dei tempi o per decidere se arpeggiare gli accordi di lunga durata. La stessa idea di arpeggio svolge un ruolo del tutto naturale di avvicinamento degli elementi che formano una sequenza accordale. Infatti storicamente il basso albertino si applica originariamente ai tempi lenti. Ritornando ad un caso precedente: se i boy-scout attraversano la strada uno per volta, ad un intervallo di tempo di un minuto, difficilmente riconosciamo la figura “fila indiana” rispetto al contesto, non potendo attivare la regola della vicinanza.
Un’altra regola attraverso la quale viviamo la realtà è quella della “direzione” o del “destino”: ogni forma ha una propria organicità che riusciamo a percepire, entro certi limiti, anche se lacunosa. Ascoltando con l’autoradio un pezzo musicale mai sentito, ci è facile percepire l’unità melodica del pezzo, pur se disturbata da brevi interferenze. Ovviamente ciò riesce più difficile se una galleria impedisce l’ascolto di una lunga porzione sonora.
L’interpretazione chitarristica approfitta spesso di questa regola percettiva. Per esempio in tutti quei casi di prolungamento virtuale del suono che “illude” l’ascoltatore. Non a caso nella letteratura gestaltica la spiegazione delle illusioni occupa molto spazio, togliendo ad esse ogni connotazione negativa, per riportarle ad una accezione fenomenologica pura. Ciò che sentiamo esiste, anche se non vi è corrispettivo fisico alla forma percepita: la melodia interna che percorre le prime battute dello studio XIX di Sor-Segovia “esiste” per il destino comune che unisce alcune note, apparentemente neutrali, degli arpeggi. Ovviamente il chitarrista che predilige questa analisi ne faciliterà la percezione evidenziando tali note, utilizzando la regola della somiglianza per mezzo di un appropriato gioco timbrico e dinamico. La melodia di quello studio non esiste fisicamente ed obiettivamente, ma viene ad esistere come fenomeno percepito.
Ecco così enunciati alcuni casi semplici di formalizzazione (Gestaltung), da cui appare evidente, credo, la naturalezza della percezione ed in cui tutti i meccanismi sono governati da un’unica regola generale, quella della cosiddetta pregnanza della forma: il nostro essere tende a vivere forme regolari, chiuse, equilibrate, semplici ed economiche, forme cioè che richiedono il minor dispendio di energia possibile. Io posso indubbiamente unire in melodia le note alternativamente eseguite da un oboe e da un violino, ma ciò richiede uno sforzo elettroneuronale maggiore, quindi antieconomico e fortemente determinato dalla mia preparazione culturale: la somiglianza dei timbri rischia di scontrarsi con la direzione della melodia, favorendo una discordanza di fattori e quindi un ostacolo alla comprensione.
I cardini della teoria sono tre:
- le unità formali percepibili non dipendono necessariamente da oggetti fisici (ci siamo mai chiesti se esista veramente il tic-tac dell’orologio?);
- la realtà è costituita da oggetti riconoscibili, cioè separabili e aggregabili tra loro infinitamente;
- il rapporto tra un oggetto-forma e lo sfondo su cui si staglia è sempre determinato dalle condizioni di stimolazione.
A questo proposito, può essere utile un esempio musicale. Se in una fuga suono più forte e con estrema coerenza timbrica le varie presentazioni del soggetto, favorisco l’individuazione formale complessiva, dando unità alla struttura. La mia scelta interpretativa porta su un piano più immediato la comprensione di una tecnica imitativa. Così facendo tendo ad ovviare alla mancanza di una preparazione culturale dell’ascoltatore e a ridurre lo sforzo di concentrazione richiesto, per fare invece leva su meccanismi automatici che sfruttino appunto le regole della somiglianza, della vicinanza e della direzione.
In poche parole, evidenziare i soggetti in una fuga da parte dell’esecutore facilita l’ascolto del pubblico medio, probabilmente a discapito del rigore filologico. Si può optare per una interpretazione diversa, ma risulta evidente che l’abilità tecnica deve sempre porsi in modo adeguato al servizio di una scelta musicale razionale.
Per concludere questa introduzione alla Gestalttheorie, ricordo che Max Wertheimer cominciò ad elaborarne il nucleo concettuale a partire dai suoi esperimenti del 1912 sulla stroboscopia, quello strano fenomeno, che possiamo osservare in prossimità del Natale o nei lunapark, di tracce luminose che ruotano vorticosamente. Fermiamoci con Wertheimer a riflettere un attimo: la traccia luminosa “non esiste” in senso fisico tradizionale; esiste però percettivamente ed è generata da lampadine che si accendono e si spengono in successione e per intervalli sincronizzati; le condizioni di stimolazione, cioè la somiglianza fra le diverse lampadine, per intensità o colore, una certa vicinanza delle lampadine ed una certa loro disposizione (anche se una o due sono fulminate) consentono di evidenziare, da un contesto di buio-silenziosfondo, una “traccia luminosa” proprio …come una scia di luce.